Valeria Corciolani
Valeria Corciolani

Abbaiare alla luna, di Valeria Corciolani

Abbaiare alla luna” di Valeria Corciolani, autrice di romanzi gialli da oltre 500 mila copie vendute, è il primo romanzo per Indomitus Publishing che ci regala un travolgente spin-off con protagonista l’ispettrice Piera Jantet direttamente dall’acclamata serie di successo “La colf e l’ispettore”.

IL LIBRO E’ DISPONIBILE QUI

Ne parliamo con Valeria Corciolani per la nostra rubrica “Libri e Scrittori”.

Valeria Corciolani, per prima cosa benvenuta sul quotidiano La Gazzetta dello Spettacolo. Partiamo dai numeri: 500 mila copie vendute fanno un bell’effetto e anche “Abbaiare alla luna” sta riscuotendo un ottimo successo…
Grazie, è davvero una gioia per me raccontarmi qui! Beh 500 mila copie fa un gran bell’effetto sì, e da quel primo libro, nato per passione e senza pensare troppo al dopo, ancora sa sorprendermi, quasi non fosse roba mia. Anche perché sono la stessa tizia di quattordici libri fa che, artigliata al suo portatile, vaga per la casa come una profuga e mica alla ricerca di un posto tranquillo, figurarsi, tra figli che studiano chiacchierano o suonano, amici dei figli che chiacchierano studiano e suonano, felino invadente e marito che entra e esce come un tornado, la tranquillità in casa sua è pura fantascienza, no, lei si accontenterebbe di un angolino riparato e stop. Poi certo, uno si immagina quelle cose alla Hemingway, con una bella scrivania, bicchiere pieno, il silenzio rotto solo dalla brezza dell’Avana, quindi un po’ mi dispiace rasparvela via per propinarvene una così desolatamente priva di fascino.
Però, da quel mio primo libro, mi porto ancora dietro l’eccitazione impastata di commozione di quando hai tra le mani la copia fresca di stampa e ogni volta è come se fosse la prima volta; il cercare un refolo di quella vaporosa incoscienza e trovarla lì, nell’attimo in cui ti rileggi in chi ti legge e dici “ah, però, quello l’ho davvero scritto io?”; la stessa perplessità nel vedere il mio nome abbinato al termine “scrittrice”, che dopo tanti libri, riconoscimenti e racconti, continua a sembrarmi appannaggio di altri che non sono io; ma soprattutto mi porto dietro gli incontri, ecco, quella è l’eredità che amo di più, perché qualcuno ha detto che i libri sono come ponti ostinati capaci di unire e creare legami e ora vi posso assicurare che sì, è davvero così.

Nell’ormai lontano 2020 – quando uscì “Peggio per chi resta”, quinto capitolo della serie “La colf e l’ispettore” – inventasti un personaggio che bucava la pagina e che a parere del tuo editore Davide Radice necessitava di un palcoscenico tutto suo. Questa volta l’ispettrice Piera Jantet della questura di Aosta si muove tra le pagine da protagonista, alle prese con un caso davvero singolare… Raccontaci.
Il corpo senza vita di una giovane donna viene trovato in un bosco della Valpelline. Ed è qui che entra in scena l’ispettrice Piera Jantet. La morte della giovane è senza dubbio riconducibile a un omicidio, ma le certezze ahimè si fermano qua: nessun nome, nessuna traccia e, soprattutto, nessun movente, senza contare che il vicequestore le ha concesso solo sette giorni per arrivare in fondo alla faccenda. L’ispettrice Jantet non è certo tipo da lasciarsi scoraggiare da tempi stretti e ostacoli apparentemente insormontabili, benché la settimana sia già iniziata male, prima con l’archiviazione di un vecchio caso su un traffico di preziosi che stava seguendo da mesi e poi per le denunce di misteriosi furti e scomparse “floreali”. Occorre quindi agire in fretta e attingere a ogni risorsa possibile, anche a ex ispettori in pensione con la “scimmia dell’indagine” non ancora del tutto sopita. E sarà proprio nel dipanare l’ingarbugliata matassa che annoda passato, presente, funghi, cipressi nani, solitudini e segreti inconfessabili che questo strano caso finirà per svelarsi, un pezzo alla volta, sotto lo sguardo silenzioso della luna.
Diciamo che con l’ispettrice Piera Jantet sono partita da ciò che “non volevo”: non volevo che fosse infallibile, non volevo che fosse una supereroina, non volevo che fosse fichissima o fascinosamente “tormentata”, bensì una donna vera, abituata a fare i conti con le proprie insicurezze, l’ingombrante famiglia e pure la sua proverbiale flemma, coadiuvata dalla determinazione di uno schiacciasassi.
Mi piace raccontarvela attraverso lo sguardo dell’Alfonsina, un’ottuagenaria lombrosiana che sa mappare le pieghe e rughe, per cogliere “il cuore”: «Ah, l’ispettrice valdostana, me la ricordo: il viso rotondo di una personalità serena, tranquilla, che piglia la vita con filosofia e buonsenso. Mi era garbata subito, con quegli occhi attenti e distanti il giusto, di chi sa giudicare fatti e persone con chiarezza, acume e soprattutto senza pregiudizio, che nel suo lavoro è tanta manna.»

Per conferire una completa veridicità alle indagini e alla risoluzione del caso, ti affidi a consigli e consulenze di addetti ai lavori nell’ambito medico-legale e della Giustizia?
Scrivere porta a documentarsi, moltissimo, e pure a “spremere” chi ne sa per scoprire fin dove puoi spingerti a piegare la scienza a uso e consumo della trama che hai in testa, che poi è uno degli aspetti più affascinanti. Certo, tutto senza pedanteria e mai con sterile nozionismo, ma il lettore ha diritto di muoversi tra le pagine capendo ciò che legge e di cosa si sta parlando, quindi mai dare per scontato, specialmente se ci si addentra in territori da “addetti ai lavori”.

Oltre alla trama complessa attraverso cui si dipana l’attività investigativa e le sfumature psicologiche dei personaggi, quali tematiche su cui è importante riflettere hai trattato?
In ogni mia storia amo puntare i riflettori su uno o più temi “forti” che mi stanno a cuore. In questo caso ho cercato di sfiorare le solitudini, i silenzi, il non voler vedere, l’indifferenza di comodo e il pantano vischioso del pregiudizio, che sa appiccicarsi crudelmente a ogni cosa, sguardi compresi: «…non lasciare che il passato ti dica chi sei, ma lascia che sia parte di chi diventerai». E poi la fatica: della quotidianità, della malattia, dell’amore molesto e delle scelte. Entreremo in carcere, che per le donne diventa prigione nella prigione, anche se spesso la catena peggiore è quella che ci imbrigliamo da sole, come viene raccontato a un certo punto: «Be’, mi aveva chiesto se mi fosse mai capitato che tutto cambiasse in un respiro. “In un soffio?” avevo replicato io. “No, proprio un respiro” insisteva. “Perché il soffio le spinge via, le cose, mentre il respiro te le porta dentro.” Che a pensarci è vero, e prima non ci avevo mai fatto caso.»
Durante una presentazione mi hanno domandato quanto può contribuire la narrativa contemporanea nel mutare l’atteggiamento della società, e secondo me non solo può, ma deve contribuire, insieme al giornalismo, la musica, il cinema, il teatro, la televisione e ogni forma di comunicazione. Nominare la realtà aiuta a renderla visibile. Ovviamente le cose esistono anche quando non hanno un nome, ma nel momento in cui qualcosa viene definito e raccontato con un proprio nome, ecco che possiamo parlarne, disquisirne, discuterne. Perché, come ribadiva anche Nanni Moretti in Palombella rossa: “Le parole sono importanti”.

Quanto c’è del tuo carattere nella tua penna Valeria Corciolani?
Soprattutto l’ironia, che è la grande alleata che mi permette di trattare fatti e situazioni ad “alto peso specifico”, ma con lievità, che non è superficialità, sia ben inteso, bensì quella leggerezza che dà vigore a ciò che mi preme far aderire, invece di farlo scivolare via senza lasciare traccia. Mi piace credere – e raccontare – che davvero da ogni crepa sappia uscire la luce, sempre e comunque vada. Sono proprio i difetti e le debolezze a regalare corpo e tridimensionalità ai personaggi: è attraverso le luci e le ombre che si riesce a raccontare chi sono davvero, anzi, soprattutto grazie le seconde, e poi diciamolo, la perfezione ha meno appeal di un blocco di tufo! Infatti il momento cruciale della stesura di un romanzo è quello in cui “disegno” nella mia testa i personaggi, di loro immagino tutto: l’aspetto fisico, la gestualità, i tic, persino il tono e gli intercalari, perché ciascuno deve avere il proprio spazio e la propria voce distinguibile e riconoscibile, comprese le figure marginali, che magari vivono solo nello spazio di poche righe, lo stesso vale per i luoghi e l’ambientazione. A quel punto le pagine diventano una sorta di palcoscenico dove tutto si srotola abbastanza da sé, in fondo la trama per me è quasi un pretesto per raccontare ciò che amo di più: le persone e la vita.

Qual è stato o chi è stato il trampolino di lancio che, oltre al talento, ti ha fatto affermare nel panorama editoriale?
Il meraviglioso passaparola, che magari è più lento rispetto alla pubblicità sulle testate di settore o al passaggio in tv, ma è anche il più vivo e sincero, proprio perché si basa sul: mi è piaciuto, quindi ne parlo e lo consiglio.

Oltre a scrivere lavori come illustratrice e tieni corsi nelle scuole per avvicinare i ragazzi alla creatività e alla scrittura. Qual è la loro risposta?
I ragazzi hanno “fame” di storie. Storie scritte, disegnate, ascoltate, viste sullo schermo, catturate mentre siamo in treno, alla finestra o in fila alla cassa. Perché la vita è tutta impastata di storie, se non ci fossero le storie non ci sarebbe più niente: il mondo, l’amicizia e l’amore mica esistono senza la voglia di raccontare e di ascoltarle, le storie. Le prime volte, mentre stavo lì, ad annegarli di parole e a sdilinquirmi sulla magia delle storie, la me di mille mila anni fa mi faceva tap tap sulla spalla sibilandomi: «Ora dormono. Ora li vedrai stramazzare uno a uno faccia in giù sul banco e ciao.» E invece…
Sono sempre fenomenali. Spontanei, colmi di sana e robusta curiosità, sguardi “vivi”, sorrisi aperti e domande, tante, tantissime domande. Per poi arrivare a lei: l’immaginazione, che è meravigliosamente più complessa, sfaccettata e stratificata dei sensi fisici, per questo la sua forza è in grado di risucchiarci tra le pagine e continuare a vivere in noi anche dopo aver terminato un libro, e forse più di quanto accada davanti a un film o uno spettacolo messo in scena grazie all’immaginazione di qualcun altro. I racconti ci aiutano a ricordare, a riscriverci, a esplorare il mondo, a definire valori, a rileggere avvenimenti, a attribuire un significato all’esperienza. Quando leggiamo, ascoltiamo, guardiamo o illustriamo una storia, ciò che ci colpisce è sempre qualcosa che ci riguarda, che parla di noi, che ci aiuta a dare colore alle nostre emozioni, a regalare un senso e un ordine, ma non possiamo che osservarlo dal nostro punto di vista e con il nostro personalissimo sguardo. Perché le storie, nel momento in cui le raccontiamo, non sono più solo nostre, ma diventano di chi le legge, le ascolta, le vede. Le storie “assottigliano le distanze” e sanno farci volare attraverso il tempo e lo spazio, costruendo ponti e creando legami.
Le storie ci abitano. E dobbiamo tenerle vive. Sempre.

Se non avessi fatto la scrittrice cosa sarebbe diventata Valeria Corciolani?
Probabilmente avrei perseverato con l’illustrazione. Magari continuando all’Accademia Disney di Milano, dove ho prodotto ettometri quadrati di paperi (eh sì, passione smodata per Paperino), ma dove sono stata bacchettata e quasi bandita per aver disegnato Topolino nudo. A mia discolpa posso dire che Topolino si trovava sotto la doccia con tanto di spazzola e cuffietta da bagno, ma ahimè, non mi hanno mai perdonata per averlo smutandato. Mi sono sempre chiesta se questo in un curriculum vale quanto aver disegnato un porno. Ho anche curato diversi progetti d’animazione fra cui quello del Kinder Pinguì per la Ferrero, da cui avrei accettato anche un pagamento in natura, e posso fregiarmi di aver realizzato le illustrazioni di Wile E. Coyote per le scatole Warner Bros “Evoluzione” di Milano, pur consapevole di come ciò riveli quanto io subisca più il fascino di pennuti collerici e iellati canidi sottopeso, che quello di muscolosi e intrepidi supereroi, Uomo Ragno a parte.  
Fra i tanti lavori mai retribuiti (non avete idea di quanto sia difficile per un illustratore farsi pagare) posso citare decorazioni di surf e snowboard, di soffitti sotto cui sono rimasta appesa per giorni e senza l’aggraziata scioltezza del sopracitato supereroe, di 206 foglie di monstra per un buffet, di un pallone aerostatico per una (vana) dichiarazione d’amore: nel senso che la destinataria alzando il naso al cielo non l’ha visto in quanto si trovava in tutt’altro emisfero con l’amante, il che forse spiega perché non sono stata mai pagata.  Poi tatuaggi, finte tappezzerie finte (no, non chiedete, è meglio fidatevi) e loghi, una quantità davvero imbarazzante di loghi. Ecco, ammetto che dopo aver visto Pulp Fiction mi ero ripromessa che, nel caso fossi diventata ricca, pure io come Marcellus Vallance avrei mandato “qualche scagnozzo strafatto di crack con un paio di pinze e una buona saldatrice” a recuperare i crediti. Non prevedendo a breve di diventare ricca, a questo punto non mi resta che confidare nel Karma.

Tra i numerosi riconoscimenti hai ricevuto il “Premio Giallista dell’anno” del Festival GiallOrmea 2022. Ti senti giallista per sempre o ti piacerebbe cimentarti in altri genere fin qui mai esplorati?
In realtà sono giallista più per caso che per convinzione, per quanto sia cresciuta focaccia e Simenon, sono sempre stata una lettrice abbastanza onnivora. Il primo romanzo che ho pubblicato (Lacrime di coccodrillo, per Mondadori nel 2010) era una commedia gialla e da lì tutto si è mosso in quella direzione, anche se nei miei romanzi la trama crime è sempre un pretesto per raccontare molto altro. La mia rivincita l’ho avuta nel 2023 con l’uscita de “La regina dei colori”, per Rizzoli, un romanzo di narrativa pura che mi stavo rimasticando dentro da anni, senza mai trovare il tempo di metterci mano. L’ho scritto in meno di quattro mesi, tanto era lì, pronto per colare tra le pagine, rendendomi conto che alla fine ogni storia è un’indagine: nell’intimo dei personaggi, nelle scelte, tra le ombre e le luci, nella vita stessa, anche se non viene etichettato come giallo o noir.

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